L’uomo che diede vita alla legislazione contro la mafia

L’uomo che diede vita alla legislazione contro la mafia

Oggi presso il collegio Santa Caterina, a Pavia, con il determinante contributo della Fondazione Banca del Monte di Lombardia, sarà presentato il Centro studi di legislazione antimafia intitolato a Virginio Rognoni

articolo del 3 ottobre 2024 – Il sole 24ore

Virginio Rognoni (Imagoeconomica)
Virginio Rognoni (Imagoeconomica)

Oggi presso il collegio Santa Caterina, a Pavia, con il determinante contributo della Fondazione Banca del Monte di Lombardia, sarà presentato il Centro studi di legislazione antimafia intitolato a Virginio Rognoni, Ministro dell’interno dal 1978 al 1983, poi della giustizia e della difesa, oltre che vicepresidente del Csm dal 2002 al 2006. Il suo nome è indissolubilmente legato, tra l’altro, alla storia del contrasto al fenomeno mafioso in Italia. Il 13 settembre 1982, infatti, dieci giorni dopo l’assassinio del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa a Palermo, in Parlamento vedeva la luce la legge n. 646, che sarebbe passata alla storia come “Legge Rognoni-La Torre”. La legge era approvata in tempi brevissimi, ma grazie alla sua lunga gestazione i risultati che ne derivano permettono di riferirne come il primo e fondamentale strumento di prevenzione e contrasto al fenomeno mafioso. Il cuore del provvedimento è l’introduzione del delitto di associazione di tipo mafioso, all’art. 416 bis del codice penale, il cui testo cela una rielaborazione della giurisprudenza formatasi nell’ambito della normativa delle misure di prevenzione. Lì, prima del 1982, si rinveniva l’unico riferimento legislativo alle associazioni mafiose, fatta eccezione per quello contenuto nella legge istitutiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia del 1962. Già nel 1965, infatti, sull’onda della “prima guerra di mafia” culminata nella strage di Ciaculli del 1963, le misure della sorveglianza speciale e del soggiorno obbligato erano state estese agli “indiziati di appartenere ad associazioni mafiose”, e la giurisprudenza in materia si era in più occasioni dovuta cimentare nella non facile definizione di chi fossero questi soggetti. L’art. 416 bis c.p., che si ispira a quelle elaborazioni, coglie i caratteri fondamentali del fenomeno e tenta la non facile impresa di tradurre in termini normativi una categoria criminologica complessa, talvolta ancora oggi ridotta a fenomeni folkloristici.

Per la prima volta si punisce chi fa parte di un gruppo che si serve del cosiddetto “metodo mafioso”, cioè lo sfruttamento, da parte di una consorteria criminale, della “forza di intimidazione” del vincolo associativo e delle condizioni di “assoggettamento” e di “omertà” che da quel vincolo derivano. Il legislatore incrimina un fatto associativo con caratteri peculiarissimi che, per la sola propria esistenza, è in grado di “piegare” la volontà altrui, di coartarla, per i propri scopi. L’uso di concetti presi in prestito dalla sociologia (“forza di intimidazione”, “assoggettamento, “omertà”) permetterà, negli anni, interpretazioni evolutive della fattispecie, in grado di abbracciare realtà ulteriori rispetto alle cosiddette “mafie storiche”. Da “cosa nostra” siciliana, “’ndrangheta” calabrese e “camorra” napoletana, come accadrà per le consorterie mafiose nel Nord Italia (le “mafie delocalizzate”), per le mafie “straniere” o ancora, se pur in modo controverso, per “mafia capitale”. L’art. 416 bis c.p. poi costituisce il vero e proprio perno della legislazione antimafia: è la fattispecie cardine intorno alla quale si sarebbe costruito un fitto “sottosistema” normativo, un “binario” dedicato, pressoché parallelo rispetto ai metodi di prevenzione e contrasto dei reati “comuni”. La Legge n. 646 è stata rivoluzionaria anche perché mette per la prima volta in campo le misure di prevenzione patrimoniale del sequestro e della confisca, per incidere direttamente sulle risorse patrimoniali di sospetta provenienza illecita. Si rafforza così l’idea che un’efficace programma di prevenzione e un adeguato assetto di strumenti finalizzati al contrasto alla criminalità organizzata possono creare le condizioni per un’economia più stabile, trasparente e inclusiva, con benefici a lungo termine per l’intero sistema Paese. Si trattò soprattutto di una svolta dal punto di vista simbolico-culturale: i termini “mafioso” e “mafia” vennero messi “nero su bianco”, stigmatizzati nel loro disvalore di fattispecie criminosa contro l’ordine pubblico. Da quella operazione (anche) culturale, trae linfa l’odierna iniziativa: il centro, che si fregia della collaborazione di personalità di altissimo profilo, Sergio Seminara, Michele Prestipino, Enzo Ciconte, si propone come luogo di alta formazione, ricerca, documentazione, analisi ed evoluzione normativa della legislazione antimafia. Saggiamente l’attività del centro si divide in ambiti differenti: la ricerca storica, l’approfondimento dottrinale e la proposta di indirizzi giurisprudenziali, tutto articolato in svariati progetti che qui non si possono nemmeno elencare per punti. Vale però la pena, in questo a volte sgangherato Paese, di segnalare come in alcune occasioni – e il centro “Virginio Rognoni” ne è un fulgido esempio – pubblico e privato riescono, non solo a collaborare proficuamente, ma a fondersi per dare luogo a quella che promette di essere una vera eccellenza, caratterizzata dal rigore della ricerca e dall’attenzione ai risvolti pratici della azione legislativa e della magistratura. Ciò, in un ambito di estrema delicatezza, come quello della giustizia penale, e del contrasto alla criminalità organizzata in particolare, funestato negli anni da troppi sterili scontri ideologici. Un’altra lezione imparata da Virginio Rognoni.